giovedì 8 aprile 2010

Marika

Ogni sera torna al pub. Ogni sera si siede ad un angolo del bancone. Ogni sera parla con lei. Lei è bella, lo so, lei lavora al pub, fa la barista. Il pub è piccolo, durante la settimana, la sera, c’è solo lei dietro il banco. Lui è sempre li, ad un angolo del bancone, che gli racconta le sue storie, mentre le guarda i fianchi se serve qualcun altro, mentre le guarda la curva dei seni se prende una bottiglia dall’ultimo scaffale, mentre le guarda dentro la scollatura se si china a prendere una bottiglia di succo di frutta.
Arriva col suo gessato a righe sottili verso le nove: “smetto di lavorare molto tardi” dice, “ma il mio lavoro mi piace” dice. Pare sia rappresentante di qualcosa. Pare che gli vada bene. Quando apre il portafogli ha un gomito appoggiato sul bancone, gira la fessura verso Marika, ne spalanca bene le fauci e fa vedere le carte verdi e blu di grosso taglio che ci stanno dentro.
È una tecnica, vuole conquistarla Marika e, come uno stambecco, fa vedere i muscoli, drizza le corna, tiene alta la testa, o almeno ne fa l’equivalente sociale ossia mette in mostra i suoi soldi, le chiavi del SUV, il suo gessato a righe sottili. Ma Marika non è di quelle, dentro il portafogli spalancato ci ha guardato un paio di volte ma pensava ad altro.
Lui capisce che quella non è la strada e svolta.
Comincia a parlare con Susanna. Susanna lavora al pub il mercoledì e nel weekend. Lui il weekend non ci va al pub perché c’è troppa gente, ma il mercoledì comincia a lavorasi Susanna, vuole che metta una buona parola con Marika, vuole che l’amica trovi il pertugio che lui non ha trovato, lui vuole Marika. Susanna si manipola facile ma non fa altro che raccontare a Marika di che razza di tagli di banconote non si ritrovi nel portafogli il tipo col gessato, “una volta l’ho visto passare, c’ha un SUV che sembra una petroliera” e ancora del suo gessato a righe sottili: “tres chic” dice lei.
A Marika i gessati fanno proprio cagare, se proprio si parla di vestiti preferisce le tinte unite, li trova più di classe. Il resto non la scuote.
Lui capisce che anche quella non è strada e svolta.
Comincia a raccontare a Marika della sua attuale ragazza, del fatto che non lo capisce, che lo opprime, che vorrebbe dirgli che è finita ma non trova le parole, il coraggio, perché sai “ho una grande sensibilità, non ce la faccio a far soffrire la gente cosi”.
Marika comincia a disprezzarlo, “sei un vigliacco di merda” pensa lei mentre lui parla.
E Marika è anche stufa, sai quanti ne ha visti passare, dall’altra parte del bancone, in cinque anni: gente che la vuole, che la desidera, in questo pub che durante la settimana non c’è una ragazza nemmeno per sbaglio. Sai quanti corteggiamenti ha dovuto subire mentre serviva pinte di birra e bicchieri di vino acido. Sai quanti migliori di questo bellimbusto con il suo vestito, gessato, sul blu. L’altra sera gli ha pure risposto male. Lui se ne andato. È stato un paio di giorni senza farsi rivedere ma poi è tornato.
Ognuno si gratta la schiena come può, povera bestia.

lunedì 21 settembre 2009

La casa dei pensieri inutili.

Se tu prendi la strada che dal culo della chiesa punta a occidente e ti incammini, dopo il posto da cui si viene e si va e dopo il dosso, c’è la piazza che dicono dei rossi, o rossa.
Il grande patriarca e la sua corte ci costruirono, poco tempo fa, l’andazzo che gira, struttura che stravolge l’andazzo del passante da rettilineo a circolare per poi forse rettilineo farlo tornare. Essi infatti entrano, girano, escono e vanno via.
Al margine dell’andazzo che gira, ci sta la casa dei pensieri inutili.
Appoggiata all’andazzo che gira, essa ogni tanto ferma un passante che, per etilico incanto, comincia a parlare e pensare di inutili cose e inutili faccende.
L’economo maggiore, capo supremo del sistema su cui tutti si ruota, si compra e si vende, definisce l’utile come il margine economico netto che deriva da ogni azione. Per esempio: tre respiri bruciano trenta calorie che producono sette passi che ti portano al lavoro. Nella contabilizzazione postuma del’io nascente, tradotta sia dal tu permanente, che dal noi contabile, essi valgono, i tre respiri intendo, l’esatto ammontare di tre monete di bronzo e un nichel, inflazione permettendo.
In genere tutti si sottostà piuttosto passivamente alle regole di utilità calate dalle grandi sfere, (sostituite in tempi non remoti alle alte sfere in quanto più produttive perché appunto non sollevate) ma solo in genere.
Capita, purtroppo, che esistano luoghi dove il tempo si espanda o contragga a piacere, rendendo così la monetizzazione difficile quando non impossibile. C’è da dire che tra le ultime scoperte nella branca della ragionevole monetizzazione, il dott. Ramlic, unendo profittuosamente le sue competenze nel campo della ragioneria e dell’astrofisica ha esposto una sua teoria detta: “ l’assoluto relativo valore del tempo” . In questo studio il Ramlic tenta di dimostrare come attraverso la fissazione dell’assoluto nel processo di decadimento di una stella nana rosè, si può monetizzare il tempo di attraversamento di un tornello da parte del medio impiegato europeico. Purtroppo la legge perde coerenza nei risultati qualora l’impiegato appartenga ad altri continenti. La comunità scientifica non ha ancora dato riconoscimento ufficiale a tale teoria anche se la stessa, la teoria intendo, ha riscontrato commenti tra l’ilare e l’entusiasta fra gli impiegati di numerose fabbriche di Cernusco sul Naviglio.
La casa degli inutili pensieri è uno di questi luoghi, dove il tempo perde in sostanza la capacità di essere monetizzato con tutte le conseguenze sul valore delle azioni che richiedono tempo per essere compiute, ne deriva quindi che nulla ha il valore che ha, e tutto vale quanto si vuole, con buona pace del dott. Ramlic.
La legge dettata dalle Grandi Sfere non permetterebbe mai il pensiero inutile, gratuito, ma nella casa dei pensieri inutili, lo dice anche il nome, l’utile passa in secondo piano, la legge passa in secondo piano, alle volte bussa anche il vicino del secondo piano protestando per l’inutile rumore che si produce ad ore più utili al sonno che alla veglia, ma inutilmente perché nessuno gli risponde.
Entrando nella casa dei pensieri inutili, che dopo i primi tre scalini è la porta sulla destra, si sente subito nell’aria il buon profumo dell’ebbrezza passata, mentre già nell’aria si spande l’aroma dell’ebbrezza che sta per arrivare.
Sulla sinistra c’è subito la sala dei procuratori, dove in piccole otri trasparenti riposa il distillato (detto appunto procuratore) futuro e presente e quel che rimane di quello passato. I così detti procuratori hanno lo scopo di creare o procurare appunto l’ebbrezza, madre e padrona dei pensieri inutili.
Negli otri si vedono galleggiare foglie di malerba, maggiociondolo e maggiorana, scorze di pesca, di pera e di plenilunio, un pizzico di zucchero, zenzero e zinco, acqua.
Dopo aver pronunciato inutili parole di raccomandazione a dio, della cui esistenza si dubita fortemente, si raccolgono gli otri e se li porta nel cuore della casa dei pensieri inutili: la stanza dei pensieri inutili.
Attorno al tavolo, che per non dare adito a singulti democratici, è rettangolare, comincia la lenta e leggera mescita dei procuratori, mentre già il tabacco fumoso, agli occhi, l’ultimo guardo esclude.
Lì cominciano a nascere i pensieri inutili.
Salgono da una bocca o da un’altra, prendono corpo, con consistenza verdolina, o marroneggiante, talvolta rossastra o, più raramente, rossa e fiammeggiante. Aleggiano sopra il tavolo in principio, fumosi e indefiniti e si dissolvono con la velocità con cui sono stati creati.
Mentre la mescita avanza, con prepotenza alluvionale, i pensieri nascono sempre più corposi, il fumo pensatore si addensa, a volte in forme dalla geometria sferica o ovoidale, a volte in spigolose forme irsute che cominciano a galleggiare. Riprese da una bocca o da un’altra, queste figure fluttuanti rimbalzano sulle pareti e si rinvigoriscono, si nascondono, riescono fuori quando già un altro pensiero trotta per la stanza e fanno confusione. Planano fra capo e chino richiedendo gelosi il loro posto nell’attenzione dello stanzone, scacciano erotiche pulsioni dalle menti ormonali, e iperboli metafisiche dalle menti filosofali, riportano il tutto al valore del non senso del presente oblio. Donano pace? Quasi mai.
Capita, ma non sempre, che i pensieri acquistino tale velocità, nel rimbalzo con le pareti e nelle riprese delle bocche degli inutili pensanti, da diventare pericolosi o molesti infastidendo la mescita, costringendo gl’inutili pensatori a bruschi scarti perché il tal pensiero non gli si schianti in testa. Si vedono calici di vino sollevare in fretta la sottana, storgersi atterriti, per schivare l’ultimo pensiero della scorsa settimana che consapevole di dover morire, rifugge con gioia alla sua sorte che già si appresta.
Gli inutili pensati, gia adusi a queste manifestazioni, schivano con grazia, anche se con palpiti di apprensione tutto quel inutile pensare vagante continuando a mescere con profusione.
D’improvviso tutto cala, il tempo rimasto in agguato segna i volti, e gli occhi cerchiati di nero e intrisi di rosso. Il tempo che nella casa degli inutili pensieri non può essere contato, non perde per questo la sua forza e il suo vigore, succhia piano l’energia, sbiadisce ogni fantasia, e fuori è chiaro.
Tutto si spegne, la mescita esausta si riposa con il fiato grosso, gli inutili pensatori sciamano davanti alla porta dei procuratori maledicendo i loro corpi inopportuni e mendaci. Escono, si tuffano nell’andazzo che gira pregando dio, su cui continuano a non avere nessuna certezza, di farli uscire nella giusta direzione, di non fare confusione, che i punti di disequilibrio sono stravaganze a cui prestare attenzione. Ho visto amici sbagliare uscita all’andazzo, risvegliarsi la mattina padre di tre figli in un paese non meglio precisato dell’africa subtropicale (ricevemmo cartolina).

Lentamente intanto, un utilissimo sole, il cui utile energetico è la cifra di utile più cifra di tutte, comincia a rischiarare a est.

venerdì 28 agosto 2009

MMetropolitana

Ciao a tutti ho aperto un nuovo blog dove raccolgo i racconti della metropolitana. Il link sta sulla colonna dei link a destra. Saluti

giovedì 27 agosto 2009

MMetropolitana - Cap 2

Ieri in metropolitana ci ho visto Anna.
Anna di suo nella vita fa la ballerina. Ha che fare con un posto dove c’entrano le scale ma non quelle mobili di cui s’è detto, di più non so. Anna è molto magra.
Due sono le cose che in maniera fondamentale ama fare, ballare, in quanto ballerina, e fare il sesso, in quanto donna.
Io queste cose le so non perché conosco Anna, e tanto meno perché ci faccio sesso, magari, ma perchè sono un narratore che mi hanno detto si chiama onnisciente o omniscente, una cosa così insomma, e per questo so tutto di tutti. Cosa che, a me, non mi dispiace.
Anna è appena tornata da una città che non ha le strade, ma i fiumi, però di acqua ferma o quasi. La città più romantica del mondo, così pensa Anna, ma io non sono sicuro che sia vero. L’ha invitata un tale Mark o un nome così, straniero, o che comunque non somiglia ai nomi che la gente da qui. Dice Mark: “ Vedrai, dormire a Venezia è un’esperienza unica, terribilmente romantica.”
Anna ha detto si, e così hanno fatto il weekend, che è più o meno il sabato e la domenica che qui la gente non lavora, quasi tutti almeno, in questa Venezia, che non ha strade ma fiumi con l’acqua ferma e la gente se ne va in giro in barca.
Non penso che li ci sia la metropolitana ma non so.
Anna pensava che Mark era proprio un bel ragazzo e ci sarebbe stato sicuramente da fare una delle cose che ama di più fare: non ballare. Così è andata a Venezia.
Adesso Anna è pensierosa, ma neanche tanto, e c’ha un mezzo sorriso che si vedono un poco i denti, ma solo un poco.
Mark invece è incazzato e ha preso un’altra linea della metropolitana, probabilmente la verde che dicono faccia speranza, ma forse la rossa perché è proprio incazzato.
Comunque Anna e Mark stavano tornando da Venezia come due piccioni, che mi dicono ce ne siano tanti, e lì Mark ha fatto uno sbaglio grande.
Erano lì, alla stazione di Mestre, proprio vicini a Venezia e Mark dice: “vorrei che la nostra storia diventasse qualcosa di serio”, proprio così, come fosse una proposta. Veramente Mark glielo voleva dire a Venezia, che ne so, passeggiando in riva a quei fiumi fermi, magari mentre il sole va giù, ma non aveva coraggio abbastanza. Alla fine il coraggio gli è venuto proprio nella stazione di Mestre, che, dico io, non è proprio la cosa migliore.
Anna ha riso. Nel senso di ridere. Non a bocca aperta, ma lo stesso si vedeva che rideva, e rideva come per dire no.
Mark non l’ha presa bene. E’ andato a fumare in bagno, che non si potrebbe, ma tanto ti chiudi dentro, e se n’è stato in piedi fino a qua.
Non si sono neanche salutati. Proprio per niente. Mark è sceso ed è andato via.
Anna adesso se ne sta nel vagone della metropolitana e torna a casa e pensa che si è proprio divertita a Venezia, peccato che Mark, si insomma, che Mark abbia voluto dire tutto.
Lei non è mica fatta così, insomma, non è ferma, non vuole stare ferma, anche perché come ballerina, lei balla.
Ecco, insomma, questa storia è andata più o meno così, a me da un po’ fastidio che Anna sia contenta perché è stata in questa Venezia, che a me non pare poi così romantica alla fine, e Mark invece sia triste e arrabbiato, ma è che andata così.
Tra l’altro Anna c’ha proprio una bella valigia, rossa con le ruote piccole che qui si chiama trolli, o una cosa simile. Mi sembra grande per due giorni. Sono proprio comode con quelle ruote piccole, non si fa fatica. Chissà se galleggiava su quei fiumi fermi, la valigia dico, ma non credo.

martedì 25 agosto 2009

Chissa Pier

Stavo facendo all’amore con questa mia amica. Però pensavo decisamente ad altro.

Pensavo a Pier. Chissà se mi ama.

Eravamo stati amici un tempo infinito, macche infinito, almeno quindici anni, da quando s’era bambini.

Poi viene fuori. Sono gay, mi dice.

Ma vai a cagare Pier, gli dico, allora baciami stronzo, dico ancora.

Io scherzavo, lui no.

Poi viene fuori uno di quei silenzi che mai assieme a Pier, al limite si scoreggiava.

A questo penso mentre stantuffo allegramente su questa mia amica. Lei geme strozzatamene a ritmo.

Ti amo, geme strozzata.

Ma vai a cagare, penso io, e gli do due colpi più forte. Geme di più.

Dovrei prenderti ad accettate, penso. Poi è andata a finire che ho fatto proprio così. Ma questa è un’altra storia.

Chissà se Pier mi ama.

Cazzo è una settimana che non lo sento. A me, Pier, dopo una settimana manca.

Come ti sei accorto, gli ho chiesto.

L’ho preso in culo, mi dice. Lo guardo: mica scherzava.

“Eh, ma diocane…”. È tutto quello che ho saputo dire. Vabbè in effetti ho detto anche ciao.

Sono andato via, e adesso è da una settimana che non lo sento.

Chissà se mi ama?

Intanto questa mia amica mi sta venendo. Dovrei proprio prenderla ad accettate.

Chissà se com’è che viene Pier quando lo prende in culo.

Finalmente sfiata, stringe, finito?

Sussurra ti amo. Ma chi se ne frega. Cazzo, io voglio sapere se Pier mi ama.

Me ne esco fuori dalle sue gambe che non ho neanche finito. La testa non vuole più, il cazzo domanda.

Che cazzo domandi? Dico io.

Vado in bagno, non voglio che veda il profilattico vuoto. Merda di città neanche un’accetta.

Mi guardo allo specchio, nudo.

Chissà Pier, penso.

lunedì 24 agosto 2009

MMetropolitana

Io, in quanto tale, uso per andare a lavorare la metropolitana.

So, perché me l’hanno detto, che in Inghilterra e in tutti i paesi dove l’Inglese la fa da padrone, che questa si chiama underground, o giù di li, che in breve vuol dire sottoterra, che mi sembra appropriato e semplice per definire il dove, ma alquanto vago per definire il come.

Qui, come dicevo, dove lavoro io, la stessa si chiama metropolitana che dev’essere una parola che viene fori dal latino o dal greco antico, lingue morte e seppellite.

C’è da dire che l’inglese invece vive e vegeta (buon per lui) e spadroneggia pure, tanto che ormai lo si parla in tutto il mondo. Così mi dicono.

C’è da dire che su questa metropolitana, che in fin dei conti è un po’ treno e un po’ autobus (solo che va sottoterra), non sono quasi mai da solo. Anzi, a pensarci bene proprio mai.

Se poi ci salgo negli orari giusti, che mi hanno detto essere di punta (chissa che punta?), ci salgo proprio a pelo, che se non sto attento lascio qualche pezzo fuori dalla porta che si chiude.

Sulle porte della metropolitana ci hanno fatto anche un film, ma questa è un’altra storia. Comunque le suddette porte non sono come quelle di casa che si aprono e si chiudono sui cardini, ma vanno qua e la sui binari, e prima che ghigliottinino qualcuno di solito fanno un suono di sirena. Io, in quanto me, mi diverto proprio un sacco a salire mentre suona la sirena, e i pistoni delle porte soffiano, perchè mi viene da pensare: “pensa se rimanevo fuori”. E questa è un po’ la trama del film di cui si è detto.

Salire quando suona la sirena si può fare solo se non è orario di punta perché si necessita di un certo slancio e di un po’ di spazio per frenare, che se è pieno di gente viene fuori un frittatone, e a qualcuno potrebbe non piacere. Nemmeno a me a pensarci bene.

Comunque io, qua, mi diverto anche così.

Quando si esce dalla metropolitana, spesse volte si chiede permesso, e spesse volte si spinge un po’, ma nessuno se ne ha a male, tanto spingono tutti. Bisogna stare attenti a non spingere i vecchi per chè questi si arrabbiano e qualcosa te lo dicono. In genere i vecchi hanno ragione.

Io, in quanto me, sto sempre piuttosto attento, a non spingere i vecchi appunto perché mi hanno detto che in genere hanno ragione e per questo motivo ci sto attento insomma. Non vorrei mai romperne qualcuno.

Quando si scende a me viene sempre un sacco da ridere, ma non lo faccio mai perché uno che ride quando non c’è niente da ridere fà la figura del matto. Comunque mi viene da ridere perchè si sembra tante pecore e pecoroni (questo è dovuto alla democrazia che fa viaggiare sottoterra sia maschi che femmine. Certe femmine tra l’altro! Ma solo ogni tanto.), perché da tutto il treno che è lungo piuttosto, si parte tutti veloci verso una sola porta, neanche ci dovessero tosare.

Dopo la porta c’è un corridoio. Nel corridoio, io che sono alto, non tanto, ma abbastanza, vedo le teste di quelli bassi tutte vicine, che vanno su e giù mentre camminano, nessuno a ritmo con l’altro, e mi viene da ridere un’altra volta (ma non rido). Poi c’è la scala, detta mobile in cui gli stanchi stanno a destra, fermi, e gli atletici salgono camminando a sinistra. Poi ci sono anche i turisti che stanno fermi a sinistra e allora senti, “permesso”, ma il turista in genere non capisce o perché è straniero o perché boh, e il traffico si blocca e si sta tutti fermi.

In genere io cammino e faccio l’atletico, a meno che non sia proprio stanco o mi facciano male le scarpe, e mi fanno male spesso, allora sto fermo a destra.

Anche i vecchi stanno a destra, praticamente tutti.

Poi si arriva in cima alle scale e c’è una cosa che un ministro bassino ha fatto conoscere a tutti che si chiama tornello. Prima mica lo sapevo, e poi dicono che i ministri non servono a niente. E al tornello dove esco io ci sono solo due passaggi e fà un po’ imbuto e la gente un po’ rallenta. Poi bisogna stare attenti che c’è una porta che si apre e si chiude, detta automatica, che mi arriva sotto il petto. Se sbagli il tempo gli dai certe legnate alla porta che poi ti giri a controllare se l’hai rotta ma lei è li imperterrita che si apre e si chiude. È una dura la porta, e tu ti massaggi l’anca perché in genere sbatti con l’anca.

Dopo la porta qualcuno va di qua e qualcuno va di là. E alle volte dici “prego” e fai passare una signorina, alle volte “permesso” e passi tu. Poi si dice anche “scusi” se tocchi qualcuno, o “perdon”.

Una volta uno mi ha dato un calcio forte sul polpaccio e io mi sono girato con la faccia di chi adesso ti spacco la testa ma lui ha detto “scusi” io ho detto “niente” e siamo andati via così, ma il polpaccio mi faceva male.

Ci sono anche i vecchi dopo il tornello, che in genere ci hanno il carrellino, e lì fermi tutti perchè in genere i vecchi ci hanno la ragione, così almeno mi hanno detto. Ma vanno di un piano, che certe mattine che sei svegliato nero daresti un calcio al carrellino al vecchio e alla ragione che ce l’hanno oppure no.

Poi si esce, ma questa è un’altra storia.

La linea che prendo io è la linea tre, anche detta gialla perchè tutti gli arredi dei treni, delle stazione, delle scale mobili, sono del colore giallo. La tre è l’ultima linea, nel senso che prima ci sono la uno (verde) e la due (rossa) o viceversa che i colori non me li ricordo bene.

Si potrebbe dire che la gialla è la spina dorsale della città. Ma siccome la città è più o meno una palla, non si può dire cretinate, comunque la mia (gialla) va nella piazza del Duomo che in cima c’è la “madunina” che per sua fortuna è tutta d’oro tranne le ragazzate dei piccioni, e alla stazione che pur essendo di ferro anche lei ha le ragazzate dai piccioni. Ora siccome a me sembrano i luoghi di maggior importanza della città va da se che la mia linea, gialla per l’appunto, sia la più importante della città e quindi la spina dorsale. Ora si può disquisire senz’altro, ma tanto i rimango della mia opinione quindi tanto vale non disquisire.

Comunque non voglio parlare ne di piccioni ne di quale sia la linea più importante della città, volevo solo dirvi come e dove, o per dove vado a lavorare, che sembra niente, ma siccome siamo in tanti, tutti sotto terra, che andiamo nella stessa direzione proprio come pecore e pecoroni al macello, mi pare una cosa che valesse raccontata per filo e per segno. Nel senso, non solo per dove e come ci si va a lavorare tutti insieme, ma anche chi c’è là sotto, che c’è ogni forma di umanità conosciuta, (si sente anche dall’odore) e tutti pensano e fanno cose, e mi fanno quasi tutti abbastanza ridere, tranne quelli che no, ovviamente, e ce né tanti anche di quelli.

Saluti

Buona lettura a tutti.